Fabrizio Dall’Aglio, Le allegre carte

(pubblico qui l’intervento del 18 dicembre alla Sala Fallaci del Palazzo Medici Riccardi, Firenze, in compagnia dell’Autore e di M. Brancale, P. Lucarini, P. Maccari e un pubblico partecipe)

Fabrizio Dall’Aglio ha ricevuto, come poeta, attenzione critica e premiale a livelli altissimi: basti pensare che il suo primo libro di poesie per Passigli, Hic et nunc. Poesie 1985-1998, si fregia, nel risvolto di seconda, di una nota di Mario Luzi, mentre una sua raccolta più recente, Colori e altri colori, è risultata vincitrice del Camaiore 2015, concorso tra i più importanti che abbiamo in Italia (e aggiungo tra i più virtuosi e completi nel giudizio, basandosi su una giuria popolare accanto a quella tecnica).
Cosa dire, dunque, di nuovo o almeno di non trito? I miei rilievi partiranno, come garanzia di originalità, da spunti personali. A cominciare dalle origini reggiane che condivido con lui per metà, cioè per parte di madre: mio padre giocò per sei campionati come mediano della Reggiana e conobbe mia madre, nata nella centralissima via Guidelli e figlia di un negoziante “sotto Broletto”. Quando poi leggo che alcuni scritti di Le allegre carte rivedono la luce dopo essere stati in origine pubblicati da Prandi, l’amarcord è ancora più intenso dato che per anni, fino a quando nel 1982 mi sono spostato qui a Firenze, abitavo a cento metri dalla Libreria Antiquaria Prandi, sullo stesso viale Timavo, al primo piano di un palazzo dalla facciata kitsch: rosa con rade graniglie amaranto e soprattutto con improbabili – ma non sgradevoli – pitture policrome di antichi egizi accovacciati o a coppie nei tasselli sotto i davanzali; “egiziani” oggi rimossi (anche la tinta è cambiata) ma al tempo eponimi dell’edificio.
L’aneddoto è assolutamente estemporaneo, e me ne scuso, ma vale almeno a testimoniare che il mio atteggiamento verso gli arsân, almeno quelli della mia generazione o delle precedenti, è sempre benevolo, e non per partigianeria bensì perché considero i reggiani (e direi gli emiliani-romagnoli, almeno in larga parte) gli animi migliori e più schietti che l’Italia produca.
Convinzione, la mia, che potrebbe, a un’occhiata poco attenta e asistematica, essere confutata da questo volumetto. Un libro peraltro declinato in una varietà di registri e in una pluralità di forme, dalla poesia all’aforisma al pezzo breve o brevissimo di narrativa, perfino al testo di La saga, canzone che si può ascoltare sul sito di Valigie Rosse scansionando col proprio dispositivo il codice QR in fondo al libro.
Ma è indubbio, almeno per me, che il pezzo forte della raccolta siano i sarcastici aforismi, le brevi e spesso fulminanti sentenze, disseminate a cadenza regolare lungo il libro, che fotografano paradossalmente distorsioni e vanità della società e del mondo intellettuale e in specie poetico, o aspirante/sedicente/presunto tale. Con ciò mettendosi Dall’Aglio in scia a un padre nobile come Flaiano (ricordo il celebre Diario notturno in cui tra l’altro si chiarifica che è Mino Maccari, e non Flaiano stesso come talora trovate in giro, il padre del famoso «ho poche idee, ma confuse»).
Occasionalmente ne Le allegre carte troverete anche aforismi a carattere marcatamente riflessivo (Maturità, p. 30; Presente come passato, p. 34), ma domina il registro lieve e sferzante. Alcuni esempi a p. 16, 60, 66:

ALLA RICERCA DI UN PUBBLICO
Si esibiva in affollati luoghi comuni.

PRECORRERE I TEMPI
Persino da vivo lasciava un vuoto incolmabile nella cultura contemporanea.

IL POETA E LA GLORIA
Aspirava alla vanità postuma.

Indurremo dunque da queste punture che Dall’Aglio è un reggiano anomalo e altezzoso (praticamente, per un reggiano, un parmigiano!), o che la consuetudine con la Toscana lo ha incattivito? Ci sono ampie prove a discarico.
Innanzitutto va ricordato che la dedica e una robusta parte del libro si ispirano a sentimento e dazione di sé, proprio il contrario dell’altezzosità: rappresentano l’amicizia, sotto pseudonimo bilaterale, con un altro poeta, lasciato ignoto nella postfazione (dunque non ve ne svelo l’identità). Amicizia vera e lieta che dà origine agli acrostici in endecasillabo e rime di Isidoro Cordeviola (Dall’Aglio) ad Ascanio Bino Vallelunga lungo la seconda metà del libro.

Ma la circostanza più importante si desume analizzando le poesie presenti nella prima metà del libro e recependo l’aggancio testuale che ci offre quella a p. 29, Forse mi ricucirò. Essa infatti è anche presente all’inizio di Hic et nunc, unica poesia precedentemente pubblicata (se si eccettua, curiosamente, l’incipit di La saga che era comparso sulla copertina di L’altra luna senza però essere presente nel volume).
Un aggancio poetico, un link tra due libri che io leggo (e invito voi a fare altrettanto) come un invito programmatico a considerare gli scritti contenuti in Le allegre carte (d’ora in poi AC) come facenti parte di un corpo solo con quelle di Hic et nunc (d’ora in poi HN). Operazione fondata anche filologicamente, dato che gli intervalli di composizione dei due libri sono quasi perfettamente sovrapponibili: 1984-1995 (AC) e 1985-1998 (HN).
Ne ricaviamo un profilo di Dall’Aglio meglio definito. In particolare, se leggiamo le poesie della prima parte di AC facendo loro seguire la lettura di quel “cannone di poesia senza filtro” che è HN (forse la raccolta che preferisco; sicuramente quella meno mediata dalla «ostinazione della forma», per es. in rapporto alla – pur notevolissima dal punto di vista lirico, tematico e metrico-stilistico – sezione d’apertura de L’altra luna), notiamo nel libro pubblicato quest’anno lo stesso DNA di quello del 1999.
Ciò che è tratteggiato in AC trova amplificazione e svolgimento in HN.
Per fare un esempio di questa anticipazione-amplificazione, noteremo come in AC l’io lirico si presenti senza mezzi termini come «falsario» (AC, p. 11) che si lega alla vita e la vince solo «truccando la partita» (AC, p. 17).
Bene: operando il confronto, potremo altrettanto in fretta verificare che il tema pessoano del poeta fingitore si trova già nei versi in copertina di HN («Fu allora che finsi la mia vita»; la poesia per intero si trova in HN, p. 42), per proseguire con la declinazione di “messinscena, fuga e controfigura” (HN, p. 47); fino alla estrema intuizione della propria credula inesistenza (cfr. HN, pp. 40-41). Qui trovo spunti che furono trattati magistralmente da Gianfranco Palmery, dedicatario in mortem di una poesia presente in Colori e altri colori (p. 62) e poeta perentorio in liriche quali L’io non esiste e – rivoltando il J’est un autre di Rimbaud – Un altro è io.
Proseguendo in chiave di disillusione, va registrata in AC un’autointerrogazione quasi rabbiosa per la caduta, già da giovane, delle proprie illusioni di assurgere a Vate della poesia (AC, pp. 21-22):

Quando pensavo ancora
di essere immortale, l’ultimo
animale alato,
quando l’immensa sfera
sembrava dondolare, docile
al mio peccato,
quanto potevo avere
di giorni mesi anni? Quanto
d’inganni e malintesi
quando sognavo ancora
di essere il poeta,
senza perizoma,
poeta abissale
di cielo mare pietra,
poeta animale
da soma,
che sogna scrive vola vive,
col fiato del sogno sul collo,
le notti sbiancate
le vite incartate di eroi
il lento tracollo di dèi
dall’inguine estinto?
Quando pensavo ancora
che il mondo avesse attinto
alla mia ora
superstite
l’ultima apoteosi
il ciclo degli amori e delle lune
l’avvento delle cose
e dei nomi,
estratti come numi
dalle crune del tempo?
Quando pensavo ancora
che il fiato fosse cielo
e fuoco la mia bocca,
e l’acqua del mio sangue che sgorgava
a coprire la terra,
come un immenso velo
si posava, soffice
a battezzare il mondo…

Da tanto tempo attendo
la grandine del mio cervello,
come lo zimbello di un’aquila.

Spicca, infine, il contrasto di una curiosità infantile dentro una «struttura senile» (che personalmente interpreto come gravità di pensiero) a impedire godimento delle opportunità del mondo che, mentre si perde tempo a pensare e scrivere, vengono meno): contrasto reso in AC a p. 25 in una auto-caratterizzazione di «duplice natura» [che ai fan dei Genesis ricorderà il “bearded child” di The Musical Box, e] che in HN viene amplificata sia in chiave carnale (HN, p. 21) sia in precoce autodiagnosi di progeria e fine del proprio tempo (passim ma soprattutto HN, p. 23 e 50 ss.). Autodiagnosi che, in età effettivamente matura, diventerà sguardo a ritroso nel trittico L’attesa contenuto all’interno di Colori e altri colori (p. 65 ss.).

Riassumendo: stilettate di fioretto alla società dei poeti; sciabolate, o affondi del bisturi, in se stesso. Confessionalità, seppure dai risvolti psicanalitici e poco circostanziati, che rende l’uomo Dall’Aglio, prima ancora che le sue poesie, sincero, onesto, destinato a suscitare l’empatia del lettore perché capace di mettersi violentemente in discussione; sincerità che quindi sdogana come non altezzosi anche gli eleganti strali aforistici o le invettive in forma di prosa (es. la surreale risposta – rifiuto editoriale? – contenuta in AC, p. 15):

LA RISPOSTA

«Gentile Signore, scusi davvero se ho tardato tanto a risponderle. È che speravo che nel frattempo lei sarebbe morto, e questa speranza mi addolorava, certo, al punto di annichilirmi, di togliermi qualsiasi forza, persino per un nonnulla come rispondere, pur brevemente, alla sua solerte lettera. Un penoso senso di assenza, deve credermi, e come unico appiglio per lenirlo proprio e solo quel nonnulla di risponderle, che a quel punto la sua morte mi evitava. Ben misero appiglio, lo so, eppure… L’accadimento non c’è stato, ringraziando Dio, lei non è morto, e neppure sono morto io, ma, a ben vedere, la potenzialità di quell’evento ci obbliga entrambi a riflettere sull’opportunità della mia risposta e, ancor prima e ancor più, su quella della sua cortese lettera. E in tutta sincerità, stando così le cose, proprio non riesco a vederla. Ecco perché, conseguentemente, lei non riceverà neppure questa mia risposta, e nemmeno saprà che è esistita, e mi accuserà, legittimamente magari, ma per sua sola ignoranza, di insolenza, o di boria, o che altro. La pensi come vuole, Egregio Signore, ma l’ignorante è lei».

Riassumendo su un piano differente, parafrasando le parole di Paolo Maccari in risvolto: ironia e, spesso, sarcasmo, ma anche profondo senso dell’infelicità individuale. L’allegro nasce [non solo, ma anche] dal tragico, vi sta a contatto come le due maschere della tradizione iconografica teatrale. Se mi consentite la parentesi personale, è un amalgama che mi sta particolarmente a cuore, e che credo di aver provato a porre in essere pure io, forse con una finezza minore che ha determinato una divaricazione tra detrattori che deplorano la mia comicità, e ammiratori che invece hanno avuto una visione più ampia. È bello riscontrare che tale disegno sia autorevolmente condiviso.
Non va trascurato, infine, il dato cronologico sopra accennato: AC è stato scritto in età dai 29 ai 40 anni. Un’età letterariamente parlando ancora verde, e che in questo caso mostra una profondità e vivacità non comuni. Quindi la «struttura senile», antipatica allo scrittore, potrebbe essere rovesciata in positivo considerando il famoso verso di Lee Masters che vede il genio nella coesistenza di saggezza e gioventù.
Di fatto l’avvento di questo libro crea un loop bibliografico per il quale la “ultima” raccolta data in stampa retrocede di vent’anni rispetto alla precedente per situarsi in un momento compositivo lievemente anteriore a quello della prima raccolta data in stampa diffusa (le precedenti prove erano tirature limitate); a dimostrazione, forse, che il poeta torna sempre alle coordinate spazio-temporali in cui sente più vive le sue parole. E torna – per chiudere collegandosi alla poesia che preferisco – dove sente ancora la cicatrice, se non la ferita o meglio la puntura di un letto chiodato, per qualche sogno rimasto per sempre tale (AC, p. 35, anafora al primo verso con variazioni rimate nei successivi):

Così sognano i fachiri
appoggiati sui chiodi
gli amori acerbi
nuovi
di donne e cavalieri
nei letti verdi,
colombe e sparvieri
nei nodi delle carni
allacciati,

così sognano i fachiri
coricati sui chiodi
gli amori imberbi
e i modi,
in lotte di guerrieri
dai petti saldi,
madonne e scudieri
con unghie come rovi
lacerati,

così sognano i fachiri
conficcati nei chiodi
i loro sogni
eterni.

[Fabrizio DALL’AGLIO, Le allegre carte, Vecchiano (PI): Valigie Rosse Editore, 2017, pp. 76] [cfr. anche DALL’AGLIO, Hic et nunc, Firenze: Passigli, 1999]

 

2 commenti

  1. Buongiorno e grazie x i tuoi conditi interventi…x Fabrizio Dall’Aglio al palmares devi aggiungere il “Montale” degli anni 90 x Hinc et Nunc e il “Roberto Farina”  2015 x Colori etc, intanto augurissimi x il prossimo Natale…Eugenio

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