Giorgio Caproni, “Il Terzo libro e altre cose”, nuova edizione.

la nuova copertina

Intendiamoci: qualunque cosa esca di Giorgio Caproni, qualunque cosa abbia l’effetto di sospingere l’attenzione di pubblico e critica verso questo grandissimo (allo stato della mia conoscenza, come si dovrebbe sempre dire prima di un superlativo, il più grande) del nostro novecento in versi, non può che farci bene.
Però non posso accogliere la recentissima riedizione di questo storico libro della “bianca” Einaudi con entusiasmo, nonostante la fattura delle poesie e di ciò che, dopo quasi mezzo secolo, le accompagna, ossia il saggio in coda di Luigi Surdich e la pregevole cura di Enrico Testa, che stimo e col quale concordo sul giudizio d’ineguagliata grandezza del poeta nel secolo scorso.

L’operazione non vuole, né potrebbe, aggiungere niente di inedito, ma riprodurre “oggettisticamente” – pur con una differente lirica in copertina e con l’aggiunta dell’apparato critico di cui già abbiamo detto – la singolarità di un libro (1968) che da un lato volle sintetizzare l’esperienza in versi fin lì occorsa, dall’altro – anche per il fatto che alcune poesie trasmigreranno ne Il muro della terra (1975) – guardare agli sviluppi dell’espressione caproniana.

I problemi sorgono per chi come me pensa che il tardo Caproni surclassi il precedente. Il tardo Caproni, ossia quello da
Il franco cacciatore, dunque dal 1982, in poi; e qui lasciatemi dire come, in un panorama attuale in cui conta di più se sei ggiòvane della qualità dei versi che scrivi, contemplare un filotto di capolavori scritti dai settant’anni in avanti sia un dato piuttosto consolante!
Questo Caproni surclassa il precedente proprio in quel che annota Testa a proposito del libro di cui stiamo parlando, cioè nel «modo vissuto» di una lingua poetica fatta di continue interrogazioni, esclamazioni, interruzioni e riprese del discorso. Ancillare alla continua, dolorosa e dubbiosa ricerca del Nostro.
Filtrato da queste considerazioni, il libro appare un’uscita debole, perché la componente del Terzo libro direzionata in avanti (cioè verso la compiutezza di questa lingua) è palpabilmente inferiore rispetto a quella retrospettiva.
Anzi: doppiamente debole! in quanto, avventurandoci fuori dall’omnicomprensivo Meridiano con l’intero opus poeticum, non sono state messe in opera – a parte questa – analoghe ristampe di opere caproniane singolarmente prese. Ristampe che per le ultime opere – Il franco cacciatore, Il Conte di Kevenhüller, Res amissa; tutte irreperibili uti singula – non smetto di auspicare. Ma attorno alle quali continuo a respirare un quantomeno vago sentore di embargo, come già scrissi in occasione del centenario. Non essendo in me ancora venuta meno, a distanza di un quadriennio, la mestizia per questo paese suscitata dalle esternazioni del figlio Attilio o dal contestuale articolo de L’Avvenire (ho già detto quel che penso al link qui sopra). O ancora dagli incontri letterari che scaturirono nella mia città in occasione della ricorrenza, tutti “Genova e ammòre” e nessuno orientato sul «lucido e rastremato e geometrizzante poeta del vuoto e del nulla», citando ancora l’ottimo Testa.
Haec tempora, haec Italia. Nondimeno, ammetto che tutto ciò m’indisponga; e ammetto di vedere anche la riesumazione di questo Terzo libro, e non d’altro, in questo cono d’ombra.

Un progetto, in conclusione, che ha sicuramente la sua importanza “archeologica”, che consiglierei allo studioso però non al neofita né, soprattutto, a chi punti al Caproni più potente. Meglio, per costoro, conservare i soldi per acquistare il meridiano. Qualche risparmio aggiuntivo e la vista che si schiuderà sarà immensamente più estesa e ammaliante. 

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