nel numero di Ottobre della rivista Poesia, in edicola ancora per una decina di giorni, troviamo una recensione con estratti di Elis Island di Silvio Ramat: libro di poesie scritto “in carteggio 2011” con Elisabetta Graziosi; da qui Elis e non la newyorkese Ellis; cosa che ha tratto in inganno più di un compilatore di pagine web. La recensione è giunta particolarmente opportuna in quanto proprio in questi giorni ho completato la lettura di un “racconto in versi” del poeta fiorentino, Mia madre un secolo (Marsilio).
Di Elis Island ancora non posso dire altro, se non che mi pare bella l’invenzione di un luogo di non meglio definita convalescenza, vagamente kafkiano; oppressivo sia pure nello spaziare dell’immaginazione. Cosa c’è a monte? Un accadimento clinico effettivo? O piuttosto lo smarrimento di chi “sa che la poesia non è più di questo mondo” (così Luigi Baldacci in prefazione a Mia madre)? Lasciando ogni ipotesi ricostruttiva alla lettura della intera silloge, si può intanto pensare, oltre al sommo Franz, a una versione meno cupa di Fortezza di Giovanni Giudici (1990).
In particolare trovo un richiamo al libro appena letto nella nota di Giuseppe Langella, che enuclea da un verso di Elis (LXII, 12) l’espressione “endecasillabo pedestre” per definire l’intera fase produttiva recente del poeta, evidentemente legato, sia pur sempre nell’ortodossia delle undici sillabe, a soluzioni più desuete o immaginifiche di quelle qui presentate.
Domina effettivamente, in Mia madre un secolo, la volontà cronachistica di “zippare”, comprimere cento anni densi. Raffiguràti nella genitrice del poeta, Wanda Pieroni, che li ha attraversati per intero, sacrificando molto (in primis il talento letterario) all’amore per la famiglia; ma anche diversificati in figure altrettanto importanti: su tutte il padre del poeta, Raf, e il fratello Marco, gli scritti del quale ultimo, giurista e giudice, ho incontrato preparando la tesi di laurea sulla storia del diritto sportivo.
La componente del racconto-romanzo “storico” prevale dunque sui “versi”, anche se questi ultimi si mostrano sempre impeccabilmente equilibrati. Non c’è tempo o spazio per voli fantastici, come per esempio quello sulle origini della propria famiglia che si trova nel primo capitolo del romanzo in versi par excellence, La camera da letto di Attilio Bertolucci; quasi a mantenere nel libro la colorazione, il timbro di una famiglia contrassegnata dalla concretezza, dall’impegno familiare, lavorativo, persino politico e sociale. Dalla “mission” e dal “commitment”, si direbbe oggi con l’ubiquo inglese aziendale.
Da notare casomai come, nel tronco della prima edizione-narrazione che si arresta all’anno duemila, la condizione ultima della protagonista sia trattata trasversalmente, intervenendo qua e là rispetto alla narrazione con alcune riflessioni in carattere corsivo e “fuori numero” rispetto alle 84 poesie-capitoli. Ed è qui che si trova la sostanza poetica più rarefatta e meno “pedestre” per dirla con l’autore, ossia meno cronachistica (pp. 24; 47):
Se la ripenso, che nella penombra/ domestica, nei lunghi pomeriggi,/ sdraiata senza però prender sonno,/ mi dice che non riconosce più/ come sue le stanze in cui pur abita/ da decenni – o quando la ritrovo/ ad ogni visita più spersa, astratta/ nel passaggio da una clinica all’altra,/ in un sopore che, ironico, recita:/ – Son io, questa? e voi, qui accanto al letto,/ siete voi? -, mi sembra che le sue palpebre/ tenute chiuse, negando l’azzurro/ a un presente ostinato, custodiscano/ con giusta gelosia figure – alcune/ del colore dell’aria di Bagnolo,/ dei due anni più belli mai vissuti.
Il significato dei suoi silenzi/ (ogni tanto per noi franti in sorriso/ come per dedica estrema). Il silenzio/ la protegge, lei l’unica degente/ a non aver perduto ancora il senno/ in questa corte d’alienate. | Un velo,/ una pellicola dolente, braccia/ e gambe quasi immote. Nessun male/ dei nostri regge al confronto col suo.
La seconda edizione si accresce di dodici postille del 2006, a concludere la vicenda terrena di Wanda; nonché di dodici ricordi in prosa del 2013. Tra i primi uno, delicatissimo, testimonia la fragilità della vita che si chiude, che la fa somigliare per un attimo a quella che inizia:
Una buccia la vita che si squama.
Nell’ora forse della verità
il sole picchia forte da occidente.
La frivola mania delle cicale.
Ci si scherma per poco e vanamente.
Sgomente se non c’è riparo al male
le centenarie chiamano la mamma.