Uno dei “false friends” angloitaliani più stimolante è quello nel titolo, dove una subdola “a” rischia di confondere ciò che è da ricordare (to remind) con quello che invece è “il resto”, “avanzato” (remainder <- to remain, remaindre). E, specificamente per l’editoria, “la giacenza”, di cui si cerca di liberarsi a prezzo di favore.
Questo piccolo trabocchetto ci fornisce una suggestiva parabola della vita e certo della vita editoriale; specialmente per la poesia, dove ogni volume è effimero e viene dismesso in un batter d’ali, senza memoria alcuna, eccezion fatta per un paio di collane d’elite che hanno mezzi e voglia d’investire nel marketing.
È bello dunque pescare ogni tanto tra le giacenze di poesia che vengono proposte a metà prezzo da librerie e siti (primo tra tutti libraccio.it). La cosa ti produce un certo “effetto Schindler” e relativo senso di appagamento; anch’esso purtroppo transitorio perché ti fa riflettere sulla condizione di precarietà e imminente oblio a cui è sottoposto anche “il libro meraviglioso e irrinunciabile per questa civiltà” che ogni autore, persino lo scrivente, crede di avere partorito.
Vedi la poesia su un nastro che conduce al macero, ne sottrai pochi volumi, inevitabilmente ti domandi se la damnatio memoriae sia o meno “giustificata”. Anche se il participio ti fa orrore: una parte di te vorrebbe che ogni parola scritta fosse salvata, è chiaro.
Recentemente mi sono imbattuto in due volumi di Roberto Pazzi e Nico Orengo. E purtroppo devo dire che almeno in un caso l’oblio è, se non giustificato, comprensibile. Mentre nell’altro qualcosa, non troppo, può essere salvato. Procediamo con ordine.
Felicità di perdersi, antologia 1998-2012 dello scrittore ferrarese d’adozione Roberto Pazzi, ci presenta una serie di liriche scialbe, di taglio esistenzialista, condotte sul crinale dell’età dell’abbandono delle passioni, età propedeutica all’ingresso in un nulla spesso citato ma contraddittorio rispetto ai frequenti richiami religiosi: “Santità del nulla” si legge nell’incipit di p. 15.
Il poeta sembra compiacersi del venir meno degli impulsi ma il problema è che anche la sua poesia, al di là di qualche acquerello di facile presa (le prime due liriche) e qualche reminiscenza carnale (il culo “a mandolino” di N. a p. 48) è priva di nervi e poco capace di un’osmosi duratura nelle fibre del lettore, che vada al di là del tempo della lettura. Si sfocia addirittura nel meme internautico a p. 9: “Degli uomini mi piace apprendere/ il numero delle scarpe,/ i vini preferiti,/ gli anni che avevano/ quando han fatto l’amore la prima volta…/ Che eroe della Storia vorrebbero essere…”.
Ulteriore e definitiva prova è la lirica dedicata a Federico Aldrovandi (p. 81): elegia funebre in cui non si trova nulla se non una sorta di rimpianto, rispetto a una vicenda che lo stesso Capo di stato avrà poi modo di definire “indegna”, vicenda come sapete dotata di un marcio contorno di tracotanza autoritaria (gli insulti alla madre e gli applausi ai carnefici), vicenda soprattutto che chiamava furiosamente a raccolta, già dal suo nascere, le energie civili e poetiche di denuncia (se non lo fa questo, cos’altro?).
In chiusura di volume, nella postfazione di Matteo Bianchi, viene citato il critico Paolo Vandelli che avrebbe “individuato una corrente ideale della lirica italiana dalla poetica di Umberto Saba a quella di Roberto Pazzi, attraverso l’abissale interiorità caproniana”. Che dire? Dante c’avrà avuto judo…
Bello, infine, scoprire un editore toscano, Barbera, che non conoscevo, ma che dal sito appare chiuso a nuove proposte e fermo al 2014.

Anche se forse nemmeno qui sufficiente, più complesso il discorso del compianto Nico Orengo, i cui Narcisi d’amore, pubblicati nel 2004 da Guanda e arricchiti nel risvolto della prefazione di Valerio Magrelli, sono un laboratorio eterogeneo di poesia (ancillare alla narrativa, così egli la concepisce) sul lungo arco del ventennio 1974-1994. Il tema della raccolta, occorre dirlo subito, è il “confesso che ho trombato” che accomuna tanta non primissima età, non solo poetica: un consuntivo della propria vita amorosa che forse assurge al rango di esigenza psicologica, prima ancora che poetica. Lo svolgimento è stilisticamente elaborato nelle due sezioni estreme, l’alquanto avviluppata L’esercizio del sentimento e quella eponima, in cui più marcatamente il confronto con le proprie amate retroagisce in riflessioni sull’essenza e l’esistenza dello scrittore.
Nelle sezioni di mezzo invece ci si abbandona a un ludus fatto di filastrocche quasi scolari virate all’erotico, signoreggiate da assonanze e rime semplici. La prima di queste parti centrali, Collier per Margherita E, esagera nel semplicismo (p. 56: “Un saluto fatto piano/ chiuso nel piatto della mano;/ un saluto di fretta:/ nella mano la tua tetta”).
Molto invece si salva nella seconda, I bevitori di lune, originariamente una plaquette del 1984, che si apre col quadro di alcuni giocatori di biliardo, parenti non lontani de I giocatori di carte di Philip Larkin (p. 85): “Avevano la luna/ sversa, imprecavano/ al bigliardo e alla vita/ persa.// Avevano una sbronza/ da coglioni, alzavano/ stecche, perdevano/ bottoni.// Parlavano forbito,/ uno alla volta,/ perché il vino sul tavolo/ non era finito…”. E ancora (p. 88): “Bevi e peti/ e lassù brilla/ Mira Ceti, non hai/ commozione, non hai / abbandono, viva le stelle/ abbasso l’uomo”. La contemplazione della volta nel cielo porta a considerazioni pragmatiche (p. 90): “Era, dicevano, esplosa/ la Parmalat nel cielo/ e quel grande velo/ – la Via Lattea – rammentava/ a loro, fermamente innamorati/ una vita in stazioni:/ i conti da pagare,/ una moglie da quietare”. E il polisenso economico-carnale del “quietare” apre la strada al quotidiano ma soprattutto la riapre all’erotico, sempre in filastrocca, come nella sgangherata, iperalcolemica invocazione (pucciniana?) alla luna di p. 101: “Brindavano alla luna:/ sorella fortuna, bianca spuma…/ Si chiedevano a filo di voce,/ come pettegoli gabbiani di foce,/ avrà la figa bruna?”. Del resto la strada della speculazione filosofica, la strada avulsa dagli istinti, da Bacco e Venere, porta poco lontano (p. 103 e 109): “La prendevano alla larga:/ Orione, Plutone, Eri,/ quanti cieli?/ chi siamo noi?/ Ma poi, stringendo/ dalla curva larga/ finivano per parlare/ di Bernarda”; “Occidente, Oriente/ lotte giganti/ ideologie, religioni…/ bevevano da coglioni,/ spersi come mucche/ in un campo di zucche,/ pisciandosi nei pantaloni”.
Una sezione che ricorda l’Alberto Bevilacqua poeta per Lo specchio (Il corpo desiderato), peraltro senza raggiungerne l’altezza erotica o meramente speculativa.