Una religione possibile: “Rosa dei tempi” di Michele Brancale

Un Brancale di qualche anno fa, immagine dal sito Lucaniart

Seguo Michele Brancale sin dal suo esordio, del quale mi trovai a parlare alla Edison un settennio fa. Diventammo amici e da allora ho avuto occasione di leggere quasi tutti i suoi libri.
Non gli ho fatto mai mistero di aver trovato più ispirato il primo libro dei seguenti.
Con questo Rosa dei tempi, finalista al Camaiore 2014, mi pare che il trend si sia invertito: si tratta di un’opera matura, oltretutto finalmente approdata a una major poetica come Passigli, che tenta una mediazione o meglio una combinazione tra una ricerca dell’altro – espressa in modalità aconfessionale da La fontana d’acciaio, il suo primo libro e migliore – e la deriva liturgica ostinata di Salmi Metropolitani e La perla di Lolek (leggendo uno dei quali una mia ex mi chiese se valevano come messa di precetto, smile).
Chiariamo subito, e l’occasione è la prefazione di Gianni D’Elia: concordo col poeta marchigiano nel definire Michele un Autore “ideologico cattolico”. Brancale non deve temere e rigettare quest’aggettivo, certo di primo acchito foriero di bouquet marxiano: qui va interpretato nel senso debole di environment, di ambientazione etica-culturale (e, prima ancora, di pancia) entro cui situare il proprio pensiero, che indubbiamente si avvale della cornice cristiana.
In senso forte, invece, l’ideologia è una sovra-sovrastruttura del rapporto di produzione, quindi della forma di produzione. Oggi ampiamente capitalistica con più di una strizzatina d’occhio al turbocapitalismo: sia a livello centrale, con un governo sempre più Quisling di Confindustria e un’opposizione legata alla fenomenologia del magnate (il prossimo, a quanto pare, Diego Della Valle); sia a livello metropolitano, con la luxuryficazione del centro storico fiorentino, la trasformazione degli spazi culturali e identitari in residence per milionari e il sostanziale foglio di via ai residenti, scomodi lamentosi e poco solvibili portinai del divertimentificio 24/7. Get rich, die trying, or go to Campi Bisenzio.
Tutto si può dire fuorché che Michele sia un cantore di questo assetto.
La sua è una declinazione del tempo (il sommario lo esemplifica molto bene), un calendario in cui insieme alle ricorrenze cristiane hanno spazio e piena legittimazione giornate laiche, civiche; con una riflessione sul sociale carica di critica e di, pur pacata, sovversione.

Provo a elencare. L’insegnamento per parabole inscena, “incarna”, fisicamente e storicamente, annunciazione resurrezione e perdono nei corpi della gente comune (L’arcangelo si avvicinò alla porta, La resurrezione di Daniele Calieri, Il giorno del perdono son forse le tre poesie plasticamente più riuscite); il calendario di Michele riporta anche il Giorno della memoria, il 25 aprile, la Festa del lavoro, la Festa della Repubblica, 8 settembre e 28 settembre (insurrezione di Napoli), e un 29 settembre che è gustosissimo incrocio tra onomastico dell’autore e compleanno dell’Innominato, cosa che presta il fianco a considerazioni sulla demagogia: «Ogni giorno più d’uno si sostituisce/ a tutti identificando in se stesso/ il bene comune e il suo orientamento/ a commento dell’ego tronfio, sempre// a rivendicare un risarcimento/ con la polluzione del vittimismo./ «Chi come Dio?», dice dalla bilancia/ l’arcangelo e affila bene la spada.// Si agita intanto il piccolo idolo/ grufolando qualcosa ai microfoni».
Potente poi il dito puntato – con verve persino anticipatoria dei tragici fatti di quest’anno – contro la piaga dello sfruttamento e del capitalismo selvaggio (p. 35): «…verso i negrieri,/ per i paladini dell’intrapresa/ i padroni della vita degli altri,/ per ricordarsi di avere un’anima/ per cambiare da Chicago a Pietrarsa,/ passando a Portella delle Ginestre,/ sui «pomodori» di Villa Literno,/ per quelli che col marchio «liberale»/ stanno ripristinando la schiavitù/ mediante il dumping, il trasferimento,/ la delocalizzazione, la farsa/ per fare cassa e poi scappare altrove».
Ancora: contro la retorica armata, quella della finanza non etica (p. 87): «Per questo fate uscire dalla Borsa/ le fabbriche di armi, se veramente/ siete sinceri».
E contro le politiche classiste d’impunità e l’altrettanto classista retorica per cui per esempio – riprendo da un articolo letto solo pochi giorni fa su un quotidiano finanziario – la Svizzera che fa cadere il segreto bancario non è egualitaria ma “traditrice di chi ha contribuito ad arricchirla” (p. 106): «I ricchi ritornavano protetti/ garantiti dallo scudo fiscale,/ circolo perverso legato ai soldi,/ invocavano gravi la privacy/ da salvatori della loro patria.// Ovunque l’ipocrisia politica/ della retorica sull’evasione/ fiscale, quel monumento un po’ altero/ che è tra noi l’agenzia delle entrate».
Per concludere con un’attenzione ai migranti già testimoniata dalle anticipazioni del libro che pubblicai a suo tempo e, in positivo, il richiamo di p. 43 a non smantellare la sanità pubblica e la separazione dei poteri – entrambe suggestivamente accompagnate dall’inciso lode, quindi da una dimensione sacra.

Pur nella speranza della salvezza e della vita eterna, siamo insomma a una distanza abissale tanto dalla Chiesa dello status quo quanto dal disinteresse per le vicende mortali. Il tempo qui non è metafisica, sospensione escatologica, Göttes Zeit, allerbeste Zeit di una cantata bachiana; ma tempo ordinario, calendario esiodeo di Èrga kài emèrai.
In breve, siamo calati in una concezione di impegno civile e cristianesimo sociale. Immediato il pensiero al movimento d’ispirazione cattolica di Gerardo Bruni, che avrebbe apprezzato molto queste poesie, e al suo manifesto del 1946: «Non siamo della DC perché non accettiamo nessun compromesso con il mondo capitalistico ingiusto ed oppressivo, in un partito in cui convivono ricchi e poveri, capitalisti e lavoratori, sono sempre i poveri ad avere la peggio… Non siamo Comunisti perché non siamo marxisti o materialisti»; oggi però il movimento è anoressizzato a corrente PD con solo 4 parlamentari; a dire numericamente quanto poco queste istanze sembrino urgenti nella logica elettorale rappresentativa, o anche “governativa in salsa aurora”.
E naturalmente è viva l’eco della predicazione di Papa Francesco – «l’ultimo comunista oltre a te e me», mi dice sempre scherzando il mio amico Giovanni –, chissà peraltro quanto supportata internamente e intimamente da una Chiesa-apparato che forse ancora fatica a staccarsi da una fisionomia quarantottina al momento di propugnare e azionare le istanze egualitarie più urgenti e radicali; ecco perché, almeno per ora, la poesia di Brancale, inquadrandosi nel cattolicesimo ma spronandolo a uscire dalle sue persistenti gabbie percettive, non può dirsi (vivaddio!) ideologica in senso forte ma solo in senso lato.

Non tutta la raccolta, che ospita anche richiami robusti alle vicende personali del poeta (l’esperienza di padre, le difficoltà a relazionarsi con la maldicenza di certi ambienti) è allo stesso livello: l’equilibrio tra liturgia e koinè, umano consorzio, è maggiormente rispettato nelle stagioni d’apertura, cioè primavera ed estate. Autunno e inverno risultano più uniformi. Stesso diagramma segue l’ispirazione poetica, più guizzante nella prima metà, monocorde nella seconda.

Rigetto invece, tornando alla Prefazione di D’Elia, l’asserzione per cui il libro avrebbe potuto tranquillamente essere scritto in prosa perché «comanda la frastica sulla metrica». È invece evidente lungo il libro la ricerca e la gravitazione endecasillabica (spesso, per dirla con Raboni, “atonale”, cioè con arsi che non vanno sulle sillabe 2-6-10).
Ma più ancora è significativo il lavoro di ricerca strutturale: ogni stagione si apre con un canone alla maniera bizantina di 8 o 9 strofe in rima alternata. Venendo poi ai Santi (o, a seconda dei casi, ai Giusti laici) emergono imitazioni di tropari o un intero kontakion breve [questi ultimi due modelli mi sono stati indicati dall’autore, l’annotatore non c’era arrivato!]. Credo dunque che D’Elia abbia confuso disposizione metrica con disposizione al linguaggio piano e non ricercato (scelta, peraltro, anch’essa coerente).

Per concludere voglio citare l’incipit di una poesia inedita che ho scritto pochi mesi fa, pensando a Theodor Adorno e all’attualità: “la poesia dopo Auschwitz/ e prima delle ruspe di Salvini”. Se la pubblicherò dovrò datarla, perché la cronaca l’ha superata: Orbán, la Merkel, Milanović… Il moto dialettico tra l’accoglienza e i muri.
Intendevo significare che i nostri giorni vedono vacillare il monito di Adorno: dopo la crudeltà dei campi di sterminio, dopo il Male, non si scriva più poesia.
Invece bisogna. Quelle contenute nel libro di Brancale sono le sfide di un tempo che, a un anno e mezzo dalla pubblicazione del libro, è più che mai tempo di sfida e di scelte. Tempo che può essere catastrofico o straordinario, a seconda della mano che raccoglierà il guanto della Storia.

Un libro che non piacerà a tutti ma che segna un’evoluzione nella parabola creativa del suo Autore e che, qualunque sia il credo e non credo del lettore, porterà spunti vivi di riflessione, come l’agnostico scrivente spera di avervi dimostrato.

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