Oggi esce ufficialmente il mio nuovo libro di poesie. Titolo: Cinquantaseicozze. Editore: Italic (Pequod) di Ancona. ISBN 978-88-98505-83-8
Eccomi qui ritratto col prototipo.
Si tratta, e non è instant marketing, delle poesie che giudico con maggior favore: le mie predilette dal 1997 alla data odierna.
COME PROCURARSELO (AGGIORNAMENTO MAR 2020): Il libro è tornato disponibile online su IBS.it, Lafeltrinelli.it, Amazon e altri ebookshop. In caso di esaurimento, l’Editore Italic&Pequod dovrebbe offrire disponibilità costante, ma il suo sito è attualmente in manutenzione; potete contattarlo tramite Facebook/messenger, email, o telefonicamente allo 071/2072377.
PRESTITO (INTER)BIBLIOTECARIO. Al momento una copia del libro è disponibile per il prestito presso le Biblioteche di Frascati (RM), Terzo (AL), S. Casciano V.P. (FI).
Fatemi sapere… hashtag #56cozze su twitter. Monitorerò anche le recensioni che gentilmente vorrete lasciare (v’incoraggio a farlo, critiche feroci incluse) – nelle schede prodotto delle suddette librerie online, o nelle community quali anobii, goodreads, etc. Insomma teniamoci in contatto.
Detto questo, qualche riflessione in più.
Sarà probabilmente il mio ultimo libro stampato; al massimo il penultimo: sono stanco, devo inventarmi qualcosa per il futuro, il cartaceo non vale quasi più la pena. Le illusioni cadono come i capelli sulle tempie. La poesia interessa a pochi. A non pochi sta pure antipatica: il poeta è visto, talora a ragione, come un megalomane che irrompe nell’altrui territorio cognitivo, spruzzando sugli angoli della vostra casa il seme maleodorante dei suoi trascurabili momenti di esistenza. Ho scoperto dopo che, con parole diverse, lo scrive anche Musil nel suo Discorso sulla stupidità: il poeta è colui che c’informa, a nome della collettività, che oggi è bel tempo e ha mangiato bene.
Ecco perché molti amano e citano poesie di poeti defunti: come dice Tosca di Scarpia, «è morto: or gli perdono». Ai morti si perdona. Ai vivi o vegetanti, invece, tocca fare un lavoro lentissimo, paziente e fortemente avversato dai disturbi da stress post-traumatico – miei e di chi mi circonda.
Le poesie di questo libro sono del 2011-2012. Qualcuno le conosce già: le avevo già fatte uscire qui integralmente, con cadenza settimanale (eccovi prefazione e inizio da cui accedete al resto), e penso di averci fissato tutto quanto avevo da dire. Solo questo mi ha mosso a metterle anche su carta: l’avvenuto automonitoraggio (citando la mia spettacolare psicologa) e la consapevolezza di avere esaurito il dicibile. Cecil Day-Lewis (grande poeta e padre dell’attore Daniel) annota in The Poetic Image: scriviamo non per farci capire ma per poter capire. Di conseguenza ho dato in stampa solo una volta accertatomi d’essermi compiutamente compreso, di avere messo un punto; viceversa bastava il digitale. Inoltre, c’è voluto tempo tecnico per l’imprimatur. Ma ancora non ho scritto niente di meglio (o niente di meglio che si possa pubblicare, però questa è un’altra storia).

Promuovere? Nonostante il messaggio subliminale urbanistico della mia città (cfr. immagine qui sopra) non son più così motivato verso prolusioni, social flooding, verbosità di sorta. Né soprattutto mi sento pronto alla difesa: sono poesie al limite con la narrativa, non volano, non ricercano; se la prendono, oltre che con lo scrivente, con dio patria e famiglia. Quindi puntano a operare il miracolo di stare contemporaneamente sulle palle sia a chi ama la poesia lirica, sia a chi predilige quella di ricerca. Ho scritto perché ho scritto. E – ripeto – si tratta del mio lavoro che credo meglio riuscito.
Non credo alle presentazioni di libri di poesie, mi mettono una tristezza immane. Una volta ero il relatore di un libro altrui e, nonostante il battage e la posizione centralissima del luogo, abbiamo dovuto aspettare mezz’ora che arrivasse almeno uno spettatore. Poi abbiamo iniziato. Ecco che io e un collega parliamo per novanta minuti buoni – praticamente a nessuno, o a noi stessi e all’autore del libro, in una sorta di affabulasturbazione reciproca. Scoccata l’ora di fine dei lavori, al poeta si avvicina un uomo robusto. Un fan? No, il tizio della biblioteca che vuole i soldi per l’affitto della stanza (sic). Il poeta glieli passa dietro la schiena convinto di non essere visto, io esco da solo, al buio, nella pioggia; mi allontano senza ombrello, sperando che siano goccioline di Xanax che scendono dall’alto, un intervento divino che ci aiuti a elaborare il lutto. Non ho più presentato un libro da allora.
Magari parteciperò a qualche reading. Si vedrà.
Quanto alla voce “marketing relazionale” sono indeciso tra: piano A, fare un gesto eclatante tipo uno streaking in Santa Maria Novella durante la funzione domenicale, diventando così oggetto di cronaca e di conseguenza vendendo un sacco; piano B, interessare di questo libro solo chi abbia voglia di parlarne, bene o male. Anche qui si vedrà.
Grazie ancora a Massimo Seriacopi e Davide Castiglione, rispettivamente pre- e post-fatore. Buona lettura, se vorrete.
Ma, caro Roberto, grazie a te, e complimenti per il coraggio di esserti pubblicato con una foto come questa, l’autoironia è segno d’intelligenza, dote che non ti manca. Sono davvero contento di questa tua soddisfazione, e sai che ti apprezzo. Ti auguro che ti arrivino tanti dissensi e consensi, insomma tanta considerazione e attenzione, e se tentano il linciaggio ti verrò a difendere con affettuosa amicizia. Un abbraccio, Massimo